Omelia Don Carlo 24 maggio 2020
*Omelia 24 maggio 2020*
“Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”
Questi angeli non ne hanno molta idea della terra. Guardiamo il cielo per la stessa ragione per cui Gesù è salito al cielo, ha bruciato tutta la vita per il cielo, perché un cuore umano cosciente sente che la terra non gli basta!
Gesù ha bramato tanto il cielo che non l’ha trattenuto neppure l’amore di Maddalena, è stato perentorio nel (dirle) “Noli me tangere”: “non mi trattenere, non sono ancora giunto al Padre”.
Immagino il dialogo tra gli undici e i due angeli vestiti di bianco: “Ma per noi, tre anni fa, incontrare Gesù ci ha cambiato lo sguardo sulla terra, abbiam cominciato a guardare la terra coi Suoi occhi e la terra ci è scoppiata tra le mani“. Perché la terra – il dramma della terra – è che non basta a se stessa. Davanti agli occhi di Gesù, tutto ciò che vedi sulla terra grida al cielo e come direbbe Montale – mi pare in “Ossi di seppia” – porta scritto “più in là, più in là!”.
Tutto ciò che uno vede sulla terra è segno del cielo, ti innesca dentro un desiderio più grande della terra: il desiderio del Creatore della terra. “E da quel giorno abbiamo capito, guardando Gesù e guardando la terra come la guardava Gesù, che la terra è amabile, vivibile, entusiasmante solo come segno del cielo, come strada al cielo”. Perché quando la terra ci diventa insopportabile, invivibile è perché noi l’abbiamo riempita di cose, ma svuotata di segni: le cose non son più segno di niente, perciò non hanno più senso, perché sono i segni del cielo che rendono amabile, godibile la terra, cioè i segni di Cristo risorto. Perché il cielo non è più sopra la terra, distante dalla terra; in tutte le religioni sì, ma, dopo l’incarnazione, il cielo è la forma della terra, è la sua profondità, la sua bellezza misteriosa. Sono questi segni del cielo, sulla terra – cioè le cose della terra trasfigurate dal cielo – sono quelli che hanno lanciato gli apostoli dopo l’Ascensione su quel monte, che non sappiamo quale sia, della Galilea, dove li ha lasciati.
Sono i segni che hanno lanciato gli apostoli, (che hanno) “innescato” e lanciato tutti i santi della storia, che hanno “innescato” anche la mia fede e la vostra: i segni che hanno fatto fiorire l’amicizia miracolosa che c’è tra di noi, mascherati o smascherati.
Ogni volta che ci penso, che vi guardo, io dico che il miracolo dei miracoli, nella mia vita, è l’amicizia che c’è nella Chiesa perché mette insieme persone impossibili, tanto sono diverse e – come si dice? – non si armonizzano naturalmente tra di loro. È questa diversità che impone il miracolo: per il fatto stesso che c’è, è un miracolo, un miracolo che ci rende liberi di stare insieme. Pensavo qualche tempo fa (che) io ho conosciuto direttamente gli ultimi sei Papi, e quei sei lì se uno li mette insieme, come diceva Di Pietro, (si chiede:) “Che ci azzecca uno con l’altro?!”. Eppure sono protagonisti del più grande rinnovamento, della più grande riforma – appena iniziata – che la Chiesa cattolica ha realizzato nel mondo. Ragazzi, cambierà tutto, già sta cambiando la forma, anche della cosa più sacra che sono i Sacramenti, anche perché nella storia della Chiesa non hanno mai avuto la stessa forma i sacramenti, la cosa più variata è quella e questa cosa che è successa comincia a far scricchiolare tutto, non si può più vivere nelle forme di vita precedenti, ma è esattamente questa diversità che impone il miracolo. Le mascherine e i guanti non ci impediscono di vedere il miracolo che noi siamo per il fatto che siamo insieme. È questo che ci rende liberi di essere uniti, a tutta prova, senza dover essere, in nessun modo, uguali. Perché senza i segni del cielo non ha respiro nessun affetto sulla terra, può diventare anche un carcere. L’altro giorno un giornalista, in una battuta in un talk show, disse che le convivenze forzate della pandemia stan producendo più divorzi che gravidanze, perché convivere insieme per 2-3 mesi fa venir fuori quel che c’è: o c’è, tra quelle persone, un segno del cielo, sennò prima l’asfissia, poi la nevrosi e poi gli sconquassi che conosciamo. Domandiamo la grazia di poter guardare, da oggi, la terra con lo sguardo del cielo. L’avventura di Dante fu questa: quando capì che, per capir bene cos’era la terra, doveva andarla a vedere dal cielo.