Don Giussani inizio
Me lo ricordo come se fosse ora. Liceo classico Berchet, ore 9 del mattino. Primo giorno di scuola, ottobre 1954. Mi ricordo come se fosse oggi il sentimento che avevo addosso mentre salivo i pochi gradini di entrata del liceo: era l’ingenuità di un entusiasmo, di una baldanza che mi aveva fatto lasciare la pur amata strada dell’insegnamento della teologia nel Seminario diocesano di Venegono per poter aiutare i giovani a riscoprire i termini di una fede reale. Dunque, salivo quei gradini: mi rivedo in quel momento con il cuore tutto gonfio dal pensiero che Cristo è tutto per la vita dell’uomo, è il cuore della vita dell’uomo. Questo annuncio quei ragazzi dovevano iniziare a sentirsi dire e imparare, per la loro felicità. «Perché siate felici», dice il Signore agli ebrei nel Deuteronomio, motivando così l’invito all’obbedienza. Erano questi i due sentimenti che si gonfiavano l’un l’altro in quel momento, ed era una coerenza molto lunga con una storia che per me era incominciata ai tempi della giovinezza, nella mia prima liceo, vissuta nel seminario di Venegono. Per la prima volta, allora, ascoltando il mio professore di italiano, don Giovanni Colombo (che poi diverme arcivescovo di Milano succedendo al cardinal Montini) e il professore di religione, don Gaetano Corti (che poi insegnò storia del Cristianesimo all’Università di Trieste) ho cominciato a rendermi conto di quel che significasse l’affermazione del Vangelo: «Il Verbo si è fatto carne». Sento riecheggiare ancora le parole di don Gaetano: «La giustizia, la verità, la bellezza si è fatta carne»; e nell’animo di un ragazzo di sedici anni e sufficientemente assetato di queste parole era un’illuminazione improvvisa. Non ricordo nella intera mia vita un momento più decisivo di quello. Con stupore mi ritrovavo a scoprire i nessi fra quell’annuncio e tutte le cose. Ad esempio il nesso con la passione che fin dalla terza ginnasio nutrivo per la poesia di Giacomo Leopardi che avevo studiato tutto a memoria. Soprattutto tornavo continuamente a ripetermi l’inno «Alla sua donna», alla bellezza, intuendovi la profezia (perché in un non credente lo stato d’animo è come quello di uno prima di Cristo), perché il genio umano vive di quello che il Signore ha già compiuto: in fondo l’aspirazione di Leopardi era di vedere con gli occhi e toccare con le dita la Bellezza che si è fatta carne. «Già sul novello aprir di mia giornata incerta e bruna, Te viatrice in quest’arido suolo io mi pensai…». Ricordo che su una immaginetta di Cristo del Carracci, posta davanti al mio scrittoio, avevo scritto una frase del grande teologo dell’ottocento tedesco Möhler: «Io penso di non poter più vivere se non lo sentissi più parlare». Gli anni successivi non hanno fatto niente altro che approfondire e dilatare la persuasione di questa affermazione di Möhler.
Ero così entusiasta che con due o tre compagni di seminario avevamo costituito, in prima e seconda liceo, lo «studium Christi», per studiare i nessi tra Cristo e tutto quello che studiavamo, compresa la matematica e la fisica. Con una ingenuità che vi lascio immaginare, ma anche con uno spirito giusto che magari non potete ancora immaginare.
LUIGI GIUSSANI 30 Giorni 1988